giovedì, ottobre 06, 2011

Freschi di stampa: 61. Miguel Ayuso en su labirinto, Ediciònes Scire, Barcellona, 2011, pp. 144 (Rec. di T. Klische de la Grange)

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Miguel Ayuso,

El estado en su labirinto,
Ediciònes Scire, Barcellona 2011, pp. 144.

Con questo lavoro Ayuso prosegue l’indagine sulla crisi dello Stato moderno iniziata nel 1996 con Después del Leviathan? e continuata con Ocaso o eclipse del Estado? del 2005. Il cui filo conduttore è la necessità di chiarire e approfondire il senso, la funzione  (e i compiti) dello Stato moderno, in crisi evidente dal secolo scorso, e in particolare il rapporto tra questo, la globalizzazione e la post-modernità.

Miguel Ayuso
Come scriveva l’autore, già nel primo dei libri citati, il paradosso della modernità politica è che al venir meno dello Stato moderno si corre il rischio di demolire ciò che è più profondo e stabile, la propria comunità politica; della quale lo Stato è solo una delle forme (o formule) politiche, assunta dal XVI secolo in poi.

Come scrive l’autore, la chiave interpretativa dei mutamenti in corso è la stessa applicata a quelli precedenti i tempi attuali. Gli argomenti trattati sono: nazione, costituzione, comunità, società, governo e democrazia.

Tutti sono considerati rilevando il cambiamento di senso che le idee subiscono col mutare delle concrete situazioni storiche; in tale contesto, tuttavia, l’autore nota che anche il senso “post-modermo” era in certa misura contenuto nella concezione “originale” e se ne differisce grandemente, usa gli stessi termini ed espressioni. Ad esempio la formula “più società meno Stato”: all’inizio costituiva una rivendicazione anti-burocratica, successivamente con un senso parzialmente diverso fatta propria dalla Chiesa, ambedue accomunate dalla difesa dell’autonomia sociale da uno Stato forte che si voleva limitare. Ora è usata non tanto per quello, ma soprattutto per indebolire lo Stato: non è una difesa da questo, ma un attacco allo stesso.

Oppure la tendenza – apparentemente contraddittoria – dello Stato moderno da un lato al particolarismo (la frammentazione della res publica christiana), dall’altro alla universalizzazione del modello statale. Nella fase attuale la prima tendenza si è trasformata in una dissoluzione pluralistico-policratica (lobbies, separatismo delle piccole comunità e così via); l’altro ha creato un sistema economico globale, che tende ad  esautorare e/o indebolire il potere statale (e i suoi connotati peculiari).

In altre parole: è l’ideologia statale, sostiene Ayuso, ad aver creato le premesse dell’attuale momento di crisi: contratto sociale al posto delle costituzioni storiche, società a quello di comunità, l’individuo in luogo dell’uomo concreto. Alla fine dell’evoluzione lo Stato, nato dall’emancipazione del pensiero politico “classico”, in particolare di Aristotele e San Tommaso, sconta l’insufficienza – più che l’erroneità – dei tre pensatori che (sopra gli altri) l’hanno concepito: Machiavelli, Bodin e soprattutto Hobbes.

Non insistiamo nell’esposizione delle tesi dell’autore, varie e articolate, perché esulano dai limiti di una recensione.

Piuttosto due notazioni al libro.

Se è vero che (gran) parte delle ragioni della crisi attuale risalgono all’ideologia “genetica” dello Stato moderno (sono cioè endogene), è da considerare se tali “vizi d’origine” sono la logica conseguenza o il risultato, per così dire, di una patologia degenerativa.

Ad esempio: la concezione dello Stato (e del potere politico) si regge su una antropologia negativa, tale sia nella Bibbia che in S. Agostino o S. Tommaso. Ma anche in Machiavelli e in Hobbes. L’uomo è un animale politico e ha bisogno del potere politico (di     governo) perché ha una natura problematica, segnata dal peccato originale. Espressa sinteticamente, per giustificare la Costituzione (democratico-liberale) nordamericana nell’asserto del Federalista che se gli uomini fossero angeli, non vi sarebbe bisogno dei governi; se lo fossero i governanti non ci sarebbe la necessità di controlli sui governi; ma dato che gli uomini non sono angeli, c’è bisogno degli uni e degli altri. La concezione liberale “classica” presupponeva la concezione dell’uomo dal pensiero cristiano e non si discostava da quella, per cui lo Stato (il potere politico) trovava lì il proprio fondamento e giustificazione. Ma nel corso del XX secolo, come conseguenza del pensiero post-hegeliano del XIX e soprattutto del marxismo, si è sostenuto che era possibile anzi “scientifico” cambiare la natura umana, cambiando i rapporti di produzione. Con le conseguenze che abbiamo visto. Ciò non toglie che il pensiero liberale-democratico “classico” è evidentemente la secolarizzazione della teologia politica cristiana, mentre il marxismo, e in parte anche altre concezioni, sono la secolarizzazione di concezioni eretiche cristiane.

Le evidenti influenze gnostiche e pelagiane presenti nel marxismo, quelle pelagiane anche in altre concezioni (in quelle sansimoniane, tra le altre) lo rendono palese; con la convinzione che l’uomo sia capace di costruire (a tavolino) una società perfetta, e quel che più conta farla stare in piedi.

Convinzione su cui ironizzava de Maistre. Ma che evidenzia la cesura, anzi l’inesorabile opposizione tra il pensiero politico cristiano e liberale e quello che ne costituisce la negazione, addirittura nei più fondamentali presupposti.

Teodoro Klitsche de la Grange

domenica, luglio 03, 2011

Freschi di stampa: 58. Pino Aprile: «Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del sud...» (Piemme, Giugno 2011)

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Il tema è interessante e si colloca a 150 anni dall’Unificazione come un momento opportuno di riflessione. La quarta di copertina fa un paragone con i libri di Pansa, che hanno divulgato il revisionismo storico sul periodo della guerra civile italiana, detta Resistenza o Liberazione, ma in realtà disfatta bellica, occupazione mai cessata e pure guerra civile mai veramente finita. Mi auguro però che non sia così, in quanto trovo piuttosto edulcorati e leggeri i libri che ho letti di Pansa. Vale oggi forse più di ieri il principio secondo cui i vincitori scrivono sempre la storia. Vi possono essere modi piuttosto grossolani ed altri più eleganti e sofisticati. È probabile, ma non voglio enunciare giudizi perentori e non modificabili, che il metodo iniziato da Pansa sia quello edulcorato. Vi è da sperare, per Pino Aprile ed auspicabili imitatori, che non vi siano i rischi che si corrono nel trattare il periodo di cui si è occupato Pansa. Per non parlare poi del revisionismo storico connesso ai campi di concentramento, dove il carcere duro è la regola per chi si discosta da canoni sanciti per legge e ferocemente applicati dalla magistratura, la stessa che mandò in carcere ed al patibolo i “briganti” di cui Aprile si occupa nel suo libro con un tono ed un linguaggio certamente non accademico. Scrive da giornalista e vuole suscitare emozioni, ai quali affida il successo commerciale del libro.

Ma il tema è troppo serio perché possa essere lasciato nelle mani di un giornalista, se Aprile è fondamentalmente questo e senza voler offendere i giornalisti, la cui funzione è da valutare caso per caso, ma che spesso come agenti ideologici non sono diversi dagli storici accademici, cambiando solo la tecnica e lo stile. Sono abbastanza avanti negli avanti per ricordare la ricorrenza del Centenario dell’Unificazione, quando terminavo le scuole elementari in Calabria. Ma ero allora troppo giovane per andare oltre le narrazioni scolastiche e ricostruire i fatti suo documenti rimasti. Adesso la difficile congiuntura italiana e internazionale costringe ad un ripensamento critico dell’Unificazione. Credo che anche la situazione internazionale porti a riflettere sui rapporti fra il ceto politico che vive esercitando il potere e la stragrande maggioranza dei cittadini che sono amministrati e che sempre più numerosi nutrono seri dubbi che chi governa in nome loro voglio il loro bene o che essi abbiano davvero il diritto ed il potere di eleggerli.

È forse questa nuova ed inedita condizione esistenziale che ci consente di comprendere gli anni dell’Unificazione oggi meglio di ieri. La rivoluzione tecnologica delle comunicazioni ci rende meno isolati l’un l’altro. Potendo comunicare più facilmente possiamo forse costruire una nuova identità. Ma è anche vero che questa possibile nuova identità è insidiata dai cosiddetti “mainstream”, dai grandi canali verticali di comunicazione, per la quali da una parte vi è il talk show e dall’altra succubi milioni di cittadini non si sa bene quanto criticamente autonomi e immuni da persuasione subliminale e da influenze programmate.

Inizio dunque con interesse la lettura del libro di Aprile, facendo teso di ogni nome di “brigante” finora ignoto. La scheda appare in questo mio blog poco curato e aggiornato, allo scopo di redigere una scheda autonoma per ogni “brigante” che Aprile mi farà conoscere. Avverto i miei lettori, e lo stesso Pino Aprile, se gli capita di leggere questa scheda, che in ragione dell’attualità del suo libro, me ne avvalgo come traccia per poi passare ad ulteriori approfondimenti, basandomi sugli spunti che lui stesso mi offre, ma privilegiando le ricerche dirette di archivio presso l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, dove di tanto in tanto mi reco per altre ricerche non ancora concluse. Rinvio inoltre ad una riflessione sullo stesso tema avviata da Teodoro Klitsche de la Grange, sul tema «Risorgimento e guerra civile», ed integrata con documenti inediti. Il lavoro è lungi dall’essere concluso e penso che potrà solo essere avviato. Non credo che mi sarà concesso il tempo per attendere il 200° anniversario dell’Unificazione, un tempo che giudico necessario per potermi formare idee abbastanza definitive su ciò che è stato il Risorgimento, di cui ci hanno parlato a scuola, ma che che trovo già infangato per taluni rapporti che vengono in alto loco fatti fra Risorgimento italiano e sionismo. Se davvero fosse così, allora sarebbe proprio da concludere che è tutto da buttar via e da rifare di sana pianta. Non so come la pensa al riguardo Pino Aprile, se ne parlerà nel resto del libro, ancora tutto da leggere.

(segue)